Brigantaggio e banditismo nel Mezzogiorno d’Italia prima e dopo l’Unità nazionale.

08.08.2014 13:00

All’Associazione “Libera i libri” che il 18.08.2012 gli chiede di collaborare con un contributo obiettivo sul Mezzogiorno, sui suoi rapporti con il governo italiano e con il Nord del Paese e su avvenimenti come il brigantaggio, Francesco Caracciolo risponde:

   

    La caotica ribellione, il brigantaggio, sconvolse specialmente il Sud d’Italia nell’Ottocento. Innumerevoli sono gli studi che ne cercarono le cause e ne descrissero i caratteri. Non aggiungiamo ad essi altri dati e altri particolari. Ma ci sembra utile rioccuparsene confrontando il brigantaggio che imperversò prima e dopo l’unità d’Italia proclamata nel 1861 con l’altrettanto caotica ribellione che imperversò nei secoli precedenti. Dal confronto potrebbero emergere spiegazioni nuove che sottraggono al brigantaggio il carattere di novità e di originalità che gli si è attribuito. La caotica ribellione delle numerose bande di briganti e la conseguente cieca repressione attuata dal governo italiano ebbero analoghi precedenti nel passato. Il brigantaggio e la sua repressione nell’Ottocento trovano riscontro nel banditismo e nella cieca sua repressione che imperversarono nel Mezzogiorno nei secoli precedenti. Vedremo se e fino a che punto le loro cause e i loro caratteri possono ritenersi identici nei due diversi momenti storici. E qualora risultassero analoghi se non uguali, svanirebbero i requisiti di novità e di originalità che si attribuirono al brigantaggio. È pertanto utile occuparci del brigantaggio che infestò specialmente il Mezzogiorno nell’Ottocento partendo dall’esame del banditismo che infestò le stesse regioni nel Cinquecento e nel Seicento. Da quei secoli all’epoca pre e post unitaria è mutato ben poco. I banditi dei secoli XVI e XVII possono essere, nella sostanza, identificati con i briganti dell’Ottocento; il governo vicereale spagnolo di Napoli con il governo italiano di Torino, di Firenze e di Roma. La repressione fu cieca nel Cinquecento e nel Seicento e fu cieca dopo l’Unità nazionale. I metodi della repressione sono mutati tra il Cinquecento e il Seicento come sono mutati nei decenni che seguirono al 1861. Le condizioni del Sud erano arretrate, povere, conflittuali e caotiche nel Cinquecento e nel Seicento, come continuarono ad esserlo nell’Ottocento e dopo l’Unità. I rapporti sociali, le disfunzioni nell’amministrazione pubblica, la corruzione, le malversazioni, gli arbìtri di ufficiali, di magistrati e di giudici, gli abusi e gli arbìtri dei detentori della ricchezza e del potere erano nei primi due secoli dell’età moderna come quelli che si riscontrano dopo l’Unità. Si può dire che non dissimili furono la ribellione e la repressione nelle due epoche.

    Certo, nell’Ottocento non c’era il feudo, che fu abolito nel 1806. Ma persistevano, e anzi erano aumentati, gli abusi e il prepotere delle famiglie dei ceti abbienti su quelle della massa degli indigenti. I rapporti sociali erano pressoché immutati. L’arbitrario ruolo delle minoranze dominanti e la connessa conflittualità sociale persistettero anche dopo l’eversione della feudalità (1806) e dopo l’Unità d’Italia (1861). I loro effetti si manifestarono anche nel brigantaggio che, nella seconda metà dell’Ottocento, era diffuso come lo era stato il banditismo nel Cinquecento e dopo. Le condizioni della massima parte della popolazione, comprendente i ceti meno abbienti, peggiorarono pure. L’inosservanza delle leggi e le prevaricazioni sussistevano e, in una realtà sociale alquanto mutata, producevano effetti non dissimili da quelli che erano stati evidenti nella società feudale dell’antico regime.

    «Gli stranieri che vengono nelle nostre contrade – scriveva Luigi Settembrini nel 1844 (Protesta del popolo delle Due Sicilie) –, guardando la serena bellezza del nostro cielo e la fertilità dei campi, leggendo il codice delle nostre leggi, e udendo parlar di progresso, di civiltà e di religione, crederanno che gli italiani delle Due Sicilie godono di una felicità invidiabile. E pure nessuno stato d’Europa è in condizione peggiore della nostra, non eccettuati neppure i turchi […]. Questo governo è un’immensa piramide, la cui base è fatta dai birri e dai preti, la cima dal re; ogni impiegato, dall’usciere al ministro, dal soldatello al generale, dal gendarme al ministro di Polizia, dal prete al confessore del Re, ogni scrivanuccio è despota spietato e pazzo su quelli che gli sono soggetti, ed è vilissimo schiavo verso i suoi superiori. Onde chi non è tra gli oppressori si sente da ogni parte schiacciato dal peso della tirannìa di mille ribaldi: e la pace, la libertà, le sostanze, la vita degli uomini onesti dipendono dal capriccio non dico del principe o di un ministro, ma di ogni impiegatello, d’una baldracca, d’una spia, d’un birro, d’un gesuita, d’un prete […]».

    Con queste fosche tinte Settembrini descriveva poco prima dell’Unità, il desolante stato delle istituzioni e dei rapporti sociali sotto i Borboni.

    Il quadro che se ne ricava non ha bisogno di commenti. Non è affatto diverso da quello di due secoli prima. Da esso risulta il medesimo sostanziale contrasto tra le leggi e la loro applicazione, tra il formale grado di civiltà e l’arbitraria condotta di quanti, a tutti i livelli, potevano abusare delle loro funzioni opprimendo i loro subordinati e sottostando con estrema viltà ai voleri dei più forti.

    Dopo l’Unità, il cambiamento delle istituzioni avvenuto nel 1861 non produsse mutamenti di rilievo. Anzi, per alcuni aspetti, peggiorò i rapporti sociali e le condizioni in cui era la popolazione. Lo stato di sofferenza dei meno fortunati crebbe e impressionava gli osservatori. Oltre un ventennio dopo, nel 1875, Pasquale Villari (Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia) scriveva:

    «Esaminando lo stato della povera plebe di Napoli, esaminando lo stato dei più miseri contadini, io m’ero persuaso che la maggior parte di essi, se non si trovavano nella medesima miseria ed oppressione che sotto i Borboni, avevano con la nuova libertà peggiorato la loro sorte […] durando le cose come adesso, la classe inferiore, per ora ignorante della moralità, piuttosto che positivamente immorale, vedendo la classe agiata pesare così gravemente su di essa, acquisterà colla istruzione che si vuol dare, o una immoralità cosciente di sé, o un odio ancora più profondo pei signori e pel governo, che sarà pieno di pericoli per l’ordine avvenire».

    Nel 1876 le peggiorate condizioni che si verificarono nel Mezzogiorno furono pure indicate da Leopoldo Franchetti (Mezzogiorno e colonie, I) e le peggiorate condizioni che si verificarono in Sicilia furono descritte da Sidney Sonnino (La Sicilia nel 1876, II). E due decenni più tardi, Pasquale Turiello (Governo e governati in Italia) indicava l’aumento delle «violenze della borghesia nei 1800 comuni del Mezzogiorno dopo il 1860».

    Nacque allora l’esigenza di conoscere le ragioni del peggioramento delle condizioni di vita e ci fu chi si pose il quesito e ne diede una risposta, trovando che principale causa di quel peggioramento era l’assoluta libertà d’azione di cui godevano i cittadini più influenti. In specie Franchetti indicava l’arbitrio con cui i proprietari terrieri applicavano le clausole indeterminate dei contratti agrari le cui molteplici e mutevoli forme non erano regolate da leggi o da consuetudini e la cui attuazione era affidata appunto all’arbitraria volontà del proprietario. Come faceva Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti analizzava la peggiorata condizione dei rapporti sociali e indicava come causa del peggioramento la dipendenza assoluta dei contadini dai proprietari. Spiegava che essa «si manifesta[va] non solo nella durezza delle condizioni dei contratti agrari, ma ancora nella indeterminatezza di alcune delle loro clausole, che riporta[vano] la mente al tempo del servaggio».

    La spiegazione che dava Franchetti era il risultato di un esame accurato della realtà sociale ed economica: era ed è preziosa soprattutto perché poteva essere estesa dai contratti agrari e dai rapporti tra proprietari e contadini nella seconda metà dell’Ottocento ad ogni sorta di contratti e di rapporti tra individui e ceti sociali non solo in quell’epoca.

    Risulta infatti che causa del peggioramento delle condizioni di vita dei contadini non era solo la durezza dei contratti agrari, ma più ancora l’indeterminatezza delle loro clausole. Non era dunque solo una causa oggettiva, che poteva essere corretta con il mutare dei tempi e dei costumi, ma era soprattutto una causa soggettiva, che consisteva nell’assoluta libertà con cui i proprietari applicavano le clausole indeterminate di quei contratti, e, dunque, nell’arbitrio della loro condotta.

    Tutto ciò induce ad arguire che occorre guardare alla sfrenata libertà dell’uomo di applicare clausole e norme generiche e al margine di arbitrio con cui egli può regolare in modo palese e occulto i rapporti con i suoi simili, per potere scoprire la causa non solo della forzata dipendenza, ma anche delle reazioni violente e delle tensioni sociali. Si può rilevare che, come in ogni epoca e in forme diverse, allora l’arbitraria condotta di pochi occludeva ogni via d’uscita e rendeva disperata l’esistenza di molti, parte dei quali trovava sbocco alle frustrazioni nella reazione violenta, nella ribellione, e nelle derivanti sopraffazioni con cui essa finiva per emulare le prevaricazioni che aveva subìte, di cui erano autori pochi privilegiati.

    Dopo l’eversione della feudalità, dal 1806, dunque, i rapporti tra contadini e proprietari, che prima erano stati in parte feudatari, si deteriorarono. Nel 1876 Sidney Sonnino esaminava la causa del peggioramento:

    «L’abolizione del diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto perché i feudi all’infuori delle sole terre che erano state regolarmente date in enfiteusi, furono lasciate in libera proprietà agli antichi baroni: onde al legame tra il coltivatore e il suolo, che prima era costituito dalla stessa servitù feudale, non si sostituì come altrove l’altro vincolo della proprietà, ma invece quel legame fu semplicemente rotto, e il contadino si trovò libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto di fatto a maggior schiavitù di prima per effetto della propria miseria […]».

    I rapporti sociali apparivano a Sonnino nella sostanza peggiori per i ceti più deboli. In realtà erano pure notevoli i privilegi, di cui godevano i componenti dei ceti più elevati, e l’arbitrio, che essi perpetravano occultamente o palesemente in qualità di proprietari, di funzionari e di appartenenti al ceto dominante. Esisteva un mondo di rapporti, da cui derivavano molte insidie alla gente comune. Provenivano offese di ogni genere a quanti non avevano sufficienti mezzi di difesa, al contadino e all’artigiano, a molta parte della popolazione che portava il peso maggiore dei gravami pubblici, mentre sopportava pure gli arbìtri e gli abusi di pochi appartenenti ai ceti sociali più elevati; e si può dire che principali cause del brigantaggio, come del banditismo, furono l’arbitrio di pochi e la disperazione di molti.

    Dopo l’Unità nazionale persistevano gli arbìtri, le prepotenze, le prevaricazioni e le sopraffazioni dei detentori della ricchezza e del potere e la sopportazione e la sofferenza di gran parte della popolazione, nella quasi totalità composta di contadini. Da quel rapporto patologico scaturì la ribellione di molti sopraffatti e angariati. E questo avvenne allora come era avvenuto nel Cinquecento e nel Seicento, e, tutte e due le volte, non dissimile fu la repressione messa in atto dai governi spagnolo e italiano. Tuttavia, esaminando attentamente quel che avvenne nei due periodi, si possono rilevare differenze non sostanziali. Nel Cinquecento la ribellione si volse contro il governo che la reprimeva drasticamente e, per un certo tempo, contro le famiglie dei ceti abbienti, di nobili e di onorati, ricchi proprietari. Nel corso del Seicento, mentre andava decrescendo il potere del governo e l’efficacia della repressione, la ribellione fu sempre più addomesticata dal potere accresciuto dei baroni. Dopo l’Unità la ribellione fu aizzata da una parte del ceto dominante, che era rimasta fedele e legata alla caduta monarchia borbonica, contro il governo italiano ritenuto usurpatore e contro l’altra parte del ceto dominante e ricco, che era divenuta liberale e fautrice e partigiana del nuovo governo.

    Il brigantaggio, dunque, si volse contro questa parte del ceto dominante e contro il governo italiano, che fu cieco nel reprimerlo. Le leggi repressive, l’impiego dell’esercito, i suoi metodi spicciativi e le esecuzioni sommarie vanno visti e spiegati alla luce dell’allora complesso mondo di rapporti caotici e della ribellione cieca quanto la repressione. Non si può spiegare e capire tutto ciò cercando di indicare un colpevole, fermandoci a scoprire le responsabilità del Nord conquistatore e oppressore e del Sud sfortunato e danneggiato, spogliato di quello che aveva.

    Non si può guardare al Nord come al fautore del governo, fonte dell’ordine e del progresso, e al Sud, fonte del malgoverno, del caos e del regresso.

    Le cose non sono semplici come sembra che siano. Il governo italiano agì male ricorrendo alla cieca repressione, come male aveva agito il governo spagnolo. Ma la repressione, nell’un caso e nell’altro, era volta contro un mondo complicato che era molto difficile capire e trattare secondo ragione.

    Da quanto ho fin qui esposto si può arguire che le condizioni del Mezzogiorno e le cause che le hanno generate nulla hanno a che fare con la costituzione genetica dei meridionali, i cui requisiti naturali non temono il confronto con quelli di tutti gli altri popoli; e non hanno nulla a che fare con quello che è stato o che non è stato fatto pro o contro il Mezzogiorno.

    Ritengo che, per capire quanto avvenne dopo l’Unità e per fare un resoconto obiettivo di come si sono svolti i fatti occorra guardare a quel che avvenne prima. E su quel che accadde prima, guidato da un’esigenza di obiettività e lontano da ogni influenza ideologica e da ogni interesse partitico e fazioso, ho scritto e pubblicato nel 2011 Banditi baroni viceré nel regno di Napoli in età moderna. La sua lettura forse può aiutare a guardare e a ricostruire con obiettività la storia del Mezzogiorno post-unitario e dei suoi rapporti con il resto d’Italia.

Roma 22/08/2012
                                                                                                      Francesco Caracciolo

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